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[SM=g21361] Domenica di PasquaAtti 10, 34a. 37-43; Colossesi 3, 1-4; Giovanni 20, 1-9

Oggi è Pasqua di risurrezione. Tutte le letture della festa e della sua “ottava” si riassumono in un solo grido: “È risorto! È vivo!”. “Voi l’avete crocifisso – Dio l’ha risuscitato!” (cfr. Atti 2, 23-24).
Abbiamo scelto, quest’anno, come chiave di lettura del mistero pasquale, il testo di Paolo nella lettera ai Filippesi e lo abbiamo lasciato nel punto in cui si dice che Cristo, svuotatosi, umiliato, divenuto servo, va incontro alla morte, e alla morte di croce. Se la storia finisse qui, si salverebbe Cristo, ma non Dio Padre. Gesù diventerebbe anzi un argomento in più a carico di Dio: “Perché anche Gesù ha dovuto soffrire e morire? Almeno lui è certo che era innocente!”. Gli uomini sposerebbero la causa del Figlio, ma rifiuterebbero il Padre. Ed è quello che è successo, anche in reazione ad Auschwitz e all’Olocausto. Se non che, a quel punto, l’inno cambia di soggetto e prosegue in tono ben diverso:

“Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome!”

Il soggetto non è più “Cristo Gesù”, ma “Dio”. “L’ha esaltato”, è un altro modo di dire: “l’ha risuscitato”. Conosciamo l’antica obbiezione: “O Dio può vincere il dolore, ma non lo vuole, e allora non è buono. O vuole vincerlo, ma non può, e allora non è onnipotente”. La risurrezione dimostra che Dio può e vuole vincere il dolore del mondo. Lo ha fatto con Cristo e lo farà con ognuno di noi. Solo ci chiede di lasciarlo libero di scegliere lui il modo. Il filosofo Platone aveva cercato di scagionare Dio dal disordine e dal male del mondo, proclamando: “Dio è innocente!” (Repubblica X, 617e). Ma non aveva saputo darne una vera prova. Noi abbiamo la prova.
Noi siamo soliti distinguere le storie che vediamo nei films, o che leggiamo nei romanzi, in due categorie: le storie a lieto fine e quelle non a lieto fine. Di solito ci piacciono di più quelle a lieto fine. Anche la storia di Gesù è una storia a lieto fine. Ma con alcune differenze fondamentali. Il lieto fine, l’happy end, consiste di solito nel trionfo del bene e dell’eroe buono sul cattivo. In questo senso, i film western sono a lieto fine. Ma oggi ci vergogniamo di quelle vittorie. Il bene era identificato con il trionfo non del bene in sé, ma del bene della propria razza, cultura. Il nemico, nei “lieti fini” umani, è spesso finto, reso odioso artificialmente, per rendere più elettrizzante la vittoria. Nella risurrezione di Cristo la vittoria è sul vero male, sul vero nemico, il nemico universale, di tutti: il peccato, la morte. La sequenza della Messa di Pasqua canta:

“Morte e vita si sono affrontate
in un prodigioso duello.
Il Signore della vita, morto, regna ora vivo”.

I nostri “lieti fini” umani sono lieti fini provvisori: “Si sposarono e vissero a lungo felici e contenti”. “A lungo”, ma non per sempre! La morte, tornerà presto o tardi a… farsi viva. Alla fine sarà essa ad avere l’ultima parola, anche se di questo le nostre storie a lieto fine evitano accuratamente di parlare. Non così qui:

“Cristo, risuscitato dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Romani 6, 9).

La stessa possibilità Cristo ha aperto per noi. “Il Signore passò dalla morte alla vita, aprendo la via a noi che crediamo nella sua risurrezione, per passare anche noi dalla morte alla vita” (S. Agostino). La risurrezione di Cristo contiene la risposta alla più universale delle aspirazioni umane: quella che il male e l’ingiustizia non abbiamo la meglio per sempre.
Seguiamo ora in spirito Gesù risorto dal Calvario al cenacolo. Qui, apparendo per la prima volta ai discepoli la sera stessa di Pasqua, li saluta dicendo:

“Pace a voi!…Ricevete lo Spirito Santo. A chi rimetterete i peccati saranno rimessi” (Giovanni 20, 21-23).

Gesù riunisce e comunica con queste parole i frutti essenziali della Pasqua: la pace, lo Spirito Santo, la remissione dei peccati. Pace, in ebraico, termina con un suono vibrato che si perde all’infinito: Shalooooom! Chissà come vibrò quella sera sulle labbra di Cristo! Ma detta da lui la parola indicava ben più di quello che con essa si intende e si desidera oggi. La pace è ciò che egli ha conquistato sulla croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia. Pace degli uomini con Dio, dei popoli e degli uomini tra di loro. Pace e Pasqua sono strettamente imparentate. Fare la Pasqua è fare la pace, è riconciliarsi con Dio e tra noi.
Ma il dono pasquale che riassume e contiene tutti gli altri è lo Spirito Santo. Il cenacolo è il luogo dove il Paraclito fu promesso agli apostoli nell’ultima cena, alitato sul loro volto la sera di Pasqua e conferito solennemente il giorno di Pentecoste. Uno stesso luogo unisce tra loro il dono dell’Eucaristia e quello dello Spirito Santo; dove fu istituita l’una fu conferito l’altro. Questo ci dice una cosa importante: lo Spirito Santo viene dal costato e dalla bocca del Risorto presente nell’Eucaristia. È lì che il Cristo pasquale continua ad “alitare” sui suoi discepoli di oggi.
Lo Spirito Santo è anche il tramite tra la risurrezione di Cristo e la nostra. È grazie a lui che anche noi risorgeremo, ci assicura l’Apostolo:

“Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali, per mezzo dello Spirito che abita in voi” (Romani 8,11).

Il cammino della gloria segue, a ritroso, quello della passione. Nella passione, Gesù si recò dal cenacolo all’orto degli ulivi e dall’orto degli ulivi al Calvario. Nella risurrezione, andò dal Calvario al cenacolo e dal cenacolo al monte degli ulivi. Fu qui infatti che Gesù apparve per l’ultima volta; da qui inviò i discepoli come testimoni fino ai confini della terra, e da qui ascese al cielo (cfr. Atti 1, 6-12).
Questo fatto contiene una promessa anche per noi. Quante volte un cammino di sofferenza che sembrava porre fine a tutti i sogni e le speranze, si è rivelato in seguito pieno di frutti meravigliosi! Più amore, più unità tra i coniugi; più verità su noi stessi, più capacità di comprendere gli altri. “Dio scrive diritto su righe storte”, anche nella nostra vita; fa servire al nostro bene tutte le cose, anche le avversità. Come fece con Cristo.
Il mistero pasquale è l’unico che può rispondere alla domanda di senso della nostra vita, senza doversi arrestare neppure davanti al dolore e alla morte, come sono costrette a fare la filosofia, la scienza e tutte le risposte umane. Il “senso” che esso dà alla nostra vita è racchiuso in queste parole della Scrittura:

Se con lui moriamo, con lui anche vivremo; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo” (2 Timoteo 2, 11-12).

Dobbiamo però tener ricordare una cosa. Questa risposta sul senso della vita si ottiene solo appropriandoci, mediante la fede, dell’opera di Cristo, entrando attivamente dentro il mistero, non rimanendone fuori, come spettatori più o meno neutrali e distratti. Lo stesso testo della Lettera ai Filippesi ci dice come si fa ad “entrare” personalmente dentro il mistero che abbiamo meditato. In esso, a un certo punto, c’è un nuovo cambiamento di soggetto, entra in scena un terzo attore:

“Nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Filippesi 2, 10-11).

Qui il soggetto non è più né “Cristo Gesù”, né “Dio”, ma l’uomo. “Ogni ginocchio”, “ogni lingua” significano ogni uomo, ogni donna. Senza questo terzo atto, il dramma della Pasqua resta per noi incompiuto, sospeso in aria. La Pasqua trova il suo pieno compimento quando una persona, convinta interiormente della verità di ciò che ha ascoltato, proclama Gesù come suo personale Signore e Salvatore. Esce allo scoperto, prende la decisione che dà un senso e un orientamento nuovi alla sua vita, facendo di lui un “salvato”:

“Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Romani 10,9).